di Luca Frigerio
Il
battistero, la basilica, il campanile, e attorno un
discreto spazio erboso, che lega e allo stesso tempo
apparta dal borgo circostante. E mentre lo sguardo
s’adagia sulle grosse pietre grigie, sfiorandone le
asperità, ammirandone il taglio preciso, un’idea
curiosa, divertente persino, ci conquista piano piano…
La successione degli edifici religiosi, il loro
allineamento, la loro unità stilistica e architettonica,
il contesto in cui sono inseriti: sì, davvero questo di
Arsago Seprio è un piccolo, delizioso Campo dei
Miracoli. Pisa è lontana, per carità, e così i fasti e
la ricchezza della potente repubblica marinara. Ma anche
quest’angolo di terra varesotta ebbe in verità i suoi
momenti di gloria nell’età medievale, situata com’è in
posizione strategica lungo l’antica strada che collegava
Milano al Lago Maggiore. A capo di una delle pievi
primigenie della diocesi ambrosiana, Arsago mantenne per
lungo tempo un ruolo importante nella provincia del
Seprio, passando apparentemente senza scosse dal dominio
romano a quello longobardo, dal rinnovamento carolingio
alle lotte tra i Comuni lombardi. Il complesso
basilicale di San Vittore sorse, così come ancora oggi
l’ammiriamo, tra l’XI e il XII secolo, probabilmente per
impulso di Arnolfo, che di Milano fu vescovo e signore
tra il 998 e il 1018. Ma non è chiaro se la chiesa e il
battistero furono concepiti contemporaneamente, o se la
loro realizzazione avvenne in tempi diversi. Simile è
infatti la sapienza costruttiva delle due strutture,
seppur non identica: più “tradizionale” l’una, più
compatta l’altra. Quel che colpisce, comunque, è il
senso di unità, di dipendenza perfino, di un edificio
con l’altro: basilica e battistero, ad una prima
occhiata, paiono quasi un tutt’uno, senza interruzioni,
senza spazi intermedi. Se ciò fu deciso per libera
scelta o per una costrizione ambientale, oggi è
difficile dirlo. Restano le suggestioni, che
nell’allungarsi delle ombre al vespero sussurrano di una
complicità fraterna, di una volontà di unire il più
strettamente possibile riti e liturgie, catecumeni e
fedeli, come in un abbraccio. Il battistero, dunque.
Massiccio, essenziale, di una solidità senza tempo. La
base fatta di squadrati macigni, imponente, quasi fosse
un tempio ciclopico. E il vento scivola sugli spigoli
vivi, taglienti, sulle pareti che sembrano levigate. Due
porte, tre bifore e nessun’altra apertura, se non
minuscole, occultate feritoie. Il tiburio, più in alto,
s’anima invece d’archi profondi, di finestrelle
sagomate, che danno slancio, che irradiano luce, ma che
non sminuiscono in nulla la compostezza dell’insieme.
L’interno è inaspettatamente accogliente. Ci si sente
protetti, al sicuro.
E
ci si meraviglia di trovarvi un simile gioco
volumetrico, fatto di nicchie, di arcate, di pieni e di
vuoti. Un ambiente di armoniche proporzioni che soltanto
il romanico più attento e maturo poteva ideare. Un luogo
in cui tutto sparisce e si quieta, in cui nasce il
desiderio di guardarsi dentro, in pace, in silenzio.
Otto sono i lati di questo battistero varesino, secondo
una consolidata, diffusa tradizione. Perché, fin dalle
origini, questo fu un numero denso di significati per il
credo cristiano: otto come sigillo della Nuova Alleanza,
come realizzazione delle promesse espresse nell’Antico
Testamento. L’“ottavo giorno” è quello della
resurrezione di Cristo, osservò il padre Ambrogio: è il
completamento della Creazione, il superamento del tempo
dell’uomo, la nuova vita a cui il catecumeno è ammesso
attraverso il battesimo. Otto sono le beatitudini
evangeliche, ma otto sono anche quanti scamparono al
diluvio insieme a Noè, dando origine a una nuova stirpe
di uomini. E l’arte medievale fece dell’otto, e dei suoi
multipli, il simbolo numerico prediletto. Ciò che qui è
in basso, pesante, buio, si fa via via più leggero, più
luminoso. Il matroneo è come una balconata sul cielo,
che rinuncia a balaustre e parapetti per essere ancora
più aperta ed aerea. E alla pianta ottagonale si
sovrappone infine la circolarità della volta, tensione
ideale alla perfezione divina: come il cammino di chi
riceve il battesimo, che dopo l’immersione, purificato
dall’originale peccato, rinasce alla luce. Anche la
chiesa accanto, nonostante gli interventi ottocenteschi,
rivela tutta la sua sacrale imponenza. Conci più piccoli
e più irregolari compongono le mura di San Vittore, ma
accuratamente disposti, incastrati l’uno sull’altro con
paziente lavoro. Come nel battistero, non c’è spazio qui
per fronzoli e inutili orpelli: la linea è pulita,
immediata. Una fascia di archetti ciechi è l’unico
motivo ornamentale presente, che si dipana elegante su
tutto il perimetro dell’edificio: lavoro di fino, di
maestranze capaci. La planimetria è quella classica
basilicale, di impronta ambrosiana, di una austerità
esemplare: una navata centrale affiancata da due minori,
tutte absidate e aperte a Oriente. Il presbiterio è
sensibilmente sopraelevato, ma non c’è cripta, né
transetto. E si respira ancora un’aria di solenne
mistero, nonostante la scialba intonacatura del secolo
scorso abbia purtroppo falsato l’equilibrata spazialità
interiore, nascondendo il caldo impatto della pietra a
vista. Originale, invece, è il partito dei sostegni, con
l’alternarsi dei grossi pilastri e delle esili colonne,
romane, quest’ultime, e reimpiegate con il gusto per le
cose belle. Così come i capitelli fioriti, provenienti
da antichi, scomparsi edifici.
Forte e possente è anche il campanile, quasi una torre
di guardia, baluardo di un’inespugnabile fortezza. Tanto
solido e compatto che neppure le campane sembrano
riuscite a trovare posto al suo interno: le vediamo
infatti a cielo aperto, collocate curiosamente in cima
al tetto. A ben guardare, tuttavia, il campanile non è
diritto come un piombo: pende, leggermente, ma pende. E
allora, davvero il piccolo “miracolo” pisano continua…
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